"Ciò che dipingo appartiene alle persone che riescono a vedere ciò che non è visibile"
Rubens Fogacci
FRANCESCA BOGLIOLO
Un sogno che bisognava sognare: l'arte visionaria di Rubens Fogacci
L’arte di Rubens Fogacci è un luogo in cui soggetto e oggetto si incontrano, metafora e realtà convivono, originalità e tradizione si fondono; un percorso originale in continua evoluzione che mostra i caratteri di una ricerca intima dalle sfumature liriche.
Nella linea curva si rintreccia l’eco di una dolcezza ricercata e perduta insieme, un afflato nostalgico e consapevole dell’unicità di un momento struggente.
Scivola il pennello tra le mani di Fogacci per originare ricercate forme consapevolmente naïf, quasi a ricordare, come sosteneva Wittgenstein, che gli aspetti più importanti delle cose risultano spesso nascosti per via della loro semplicità e familiarità, che sono le cose che vediamo ogni giorno a nascondere la complessità e la verità della vita. Come se attraverso la deformazione, la caricatura, gli accurati manierismi si dovesse ricercare un sogno ormai perduto, antico e moderno, triste e felice, reale e illusorio insieme.
Negli occhi aperti delle figure di Rubens Fogacci si specchia un mondo che bisognerebbe sognare, spinti da un’irrefrenabile sete di bellezza, ormai sempre più spesso trascurata, sottovalutata o perduta. L’artista regala ai nostri occhi il mondo di visionari come Verne, come il postino francese Cheval o Rousseau il Doganiere, che pur senza mai viaggiare seppero dare forma a nuovi mondi del tutto plausibili, perché corrispondenti ai sogni di ognuno.
Lo sguardo di Fogacci si posa con rispetto sulla realtà e sui significati che essa racchiude: esso ha la capacità di aprire una porta sul’altrove, sullo stupore che l’osservatore – consapevole o meno- conserva dall’infanzia, ponendo alla sua attenzione quello che viene percepito prima ancora di ciò che viene visto e poi rappresentato. Nell’esperienza estetica di ciascuno rimane accesa la fiamma dell’infanzia, che permette di avvicinarsi senza remore al misterioso e al perturbante: nelle memorie di Man Ray e Magritte resta impressa la volontà di avanzare artisticamente verso l’ignoto senza dimenticare l’aspetto ludico del processo creativo, che sia latore di un’esperienza emotivamente coinvolgente.
Memore di questo principio Fogacci si addentra tra forma e colore alla ricerca di un’armonia che mostri chiaro quale debba essere il dono per le generazioni future: la sua arte desidera spogliare la realtà, liberarla dalla sua ovvietà apparente, ricordare che, come sosteneva Calvino, “ogni esperienza è irripetibile”, foriera di percezioni vitali uniche e proprie del momento presente. Non scevro di un senso malinconico, Fogacci ci guida aldilà del velo di Maya attraverso una semplificazione per via di levare, alla ricerca di un nucleo di significati che vanno ben oltre l’apparenza estetica.
Albenga, settembre 2015
GIOVANNI FACCENDA
Quel qualcosa che «è», «è stato» o «è sul punto di essere»
«Se chiudo gli occhi, vedo meglio e dipingo il mondo come lo vorrei.» Keith Haring. Stabilita la necessaria distanza rispetto ad alcune datate posizioni critiche, caratterizzate da letture alquanto superficiali del complesso dell’opera di Rubens Fogacci, pare giusto rimarcare, nella ricerca espressiva del medesimo, piuttosto l’attitudine a rivisitare, in chiave del tutto personale, taluni riferimenti iconografici appartenenti ad ambiti espressivi dilatati nel tempo e talvolta perfino eterogenei dal punto di vista squisitamente concettuale.
Lungi tutto questo, dunque, dall’aura fiabesca o, peggio, dalla supposta parvenza fumettistica (indicata, questa, in un rapporto evidentemente distorto rispetto alla Pop Art americana), con le quali, in passato, si è sbrigativamente – di fatto – circoscritto orizzonti espressivi al contrario più originali e fecondi, abitati da visioni immaginifiche tenute dall’artista a pretesto per tradurre visivamente una realtà sospesa fra qualcosa che «è», «è stato» o «è sul punto di essere».
Al solito, Fogacci ambienta, dipinge e infine caratterizza, con riflessi ora memoriali ora fantastici, un proprio, suggestivo teatro virtuale, nel quale possono legittimamente convivere i fantasmi tardo ottocenteschi di Munch accanto ai personaggi mitizzati di Lichtenstein.
Non sarebbe dispiaciuto a Calvino un pittore così limpidamente orientato verso l’inconscia percezione – diresti persino una qualche, remota e giustificata probabilità – di accadimenti arcani quanto invisibili.
Conti e si affermi, allora, soprattutto questo: l’inclinazione narrativa di Fogacci, che risalta dentro e oltre quel suo universo immaginario, nel quale il colore si spande come il tono di una voce seducente che echeggia nell’aria.
Una voce che racconta, intriga, affascina. Una voce che ha, fra gli altri, il merito di esprimere un senso di stupore e di rimanere, sempre, profondamente autentica.
Venezia, settembre 2015
DENITZA NEDKOVA
La modernità liquida di Rubens Fogacci
L’aforisma oracolare del filosofo “del divenire” trova nella pittura di Rubens Fogacci una degna espressione formale. Le forme, in un evidente defluire, le linee, in ludica sinuosità, i colori, in dense stesure, sono gli elementi che costruiscono la pittura inquieta e onnivora, giocosa e satura della modernità liquida. Non a caso si vuole applicare la teoria del celebre sociologo polacco Zygmunt Bauman, che ha inteso spiegare la post-modernità usando le metafore di modernità liquida e solida.
L’incertezza della società moderna deriva dalla trasformazione dei suoi protagonisti da produttori a consumatori. Bauman ha paragonato il concetto di modernità e post-modernità rispettivamente allo stato solido e liquido della società e lo stesso processo si osserva, di conseguenza, nell’arte. Il lavoro di Fogacci è indicativo in tal senso. Il suo percorso genera uno stile in costante evoluzione che concentra molte tappe della storia dell’arte. I suoi personaggi femminili, spesso protagonisti, come le Donne del giovane De Kooning, conciliano il formale con il dinamismo astratto. Le sue forme irregolari e policrome raccontano la dolce follia delle Nanas di Niki de Saint Phalle.
La sua pennellata carnosa e liquida è la stessa che produce, nelle mani di Cezanne, la rivoluzione cubista. Una pittura di apparenza fumettistica che, però, è lontana dal linguaggio di un Haring, ma anche da quello di Hamilton, perché non di Pop parliamo, ma, per forzare il termine, di una sorta di post-moderno “Melting Pop”. Allora le linee sinuose, le forme semplici, i colori vivaci portano un nuovo realismo post-moderno, reale e più che visionario, dinamico, in continua trasformazione, dove ogni quadro è solo un attimo di un processo in progress. I volti dei suoi personaggi sono dominati dai grandi occhi spalancati che attendono il momento successivo, quello contenuto sotto la superficie bidimensionale della tela.
Questo momento potrebbe essere trovato nelle opere plastiche di Fogacci che portano le stesse caratteristiche dei personaggi dipinti. Bronzo o gesso, la figura è prioritaria non nella sua formalità, quanto nella sua fluidità. I volumi sono di nuovo liquidi, pronti ad assumere altre forme. Un plasticismo pieno dell’inquietudine e della tensione dell’attimo prima dell’accadere. Il momento, atteso nei quadri e sprigionato dalle sculture, sta per accadere e generare una nuova forma e dopo una nuova ancora, perché “Tutto scorre, tutto è in movimento e nulla è lasciato…”
Modena, agosto 2012